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Alessio Scalzo

About Alessio Scalzo

Cresciuto ad Agrigento, milanese dal 2009. Laureando in Lettere Moderne, esperto di editoria, dal 2015 attraverso Arte Rivista muove i suoi primi sicuri passi nel mondo dell'arte.

Segantini, ritorno alla natura. L’artista che ha incantato l’Europa nel documentario di Francesco Fei

«Ho chiesto al fiore il perché della bellezza di tutte le cose. E il fiore mi ha risposto profumando il mio spirito d’amore»

La vita, quella di un ragazzino orfano arrestato per vagabondaggio. L’amore, quello del pittore alle prime armi per la sua giovane modella. E l’arte, quella che ha incantato tutta l’Europa. Sono tante le chiavi di lettura a cui si presta Segantini, ritorno alla natura, docu-film del regista Francesco Fei, in sala il 17 e 18 gennaio. Un racconto delicato e purissimo, interpretato dall’attore Filippo Timi, e accompagnato dai commenti di Annie Paule Quinsac (critica d’arte), Gioconda Leykauf-Segantini (nipote dell’artista), Franco Marrocco (direttore dell’Accademia di Brera) e Romano Turrini (storico).

Scritto a sei mani da Francesco Fei, Federica Masin e Roberta Bonazza, e distribuito da Nexo Digital in collaborazione con Sky Arte HD e MYmovies.it, il film è un poetico invito a riscoprire l’arte di un pittore unico e a lasciarsi incantare dalla sua bellezza.

«Ho scoperto e amato fin da subito l’arte di Segantini visitando la Galleria d’Arte Moderna di Milano», spiega il regista. «Il suo messaggio è al tempo stesso classico ed estremamente contemporaneo. Anche la vita di Segantini possiede la medesima potenza, lo stesso fascino. Nato poverissimo, orfano a cinque anni, analfabeta, rinchiuso in un riformatorio a dieci anni, apolide per tutta la vita, riuscì, con la sua volontà e le sue capacità, a diventare uno dei pittori più importanti del simbolismo europeo. Inoltre con la sua compagna, Bice Bugatti, diede vita ad una storia bellissima d’amore. Come si legge nel piccolo cimitero di Maloja, dove riposano per sempre insieme: arte e amore vincono il tempo»

In Segantini, ritorno alla natura c’è tutto. C’è la vita ardentemente vissuta da un uomo singolare, eccentrico e solitario. C’è l’arte potentissima delle sue creazioni nelle quali entriamo trascinati dal regista, penetrando nei colori, nella tela e nella materialità dell’opera. Scavando così a fondo da riemergere nella natura, quella vera, dei luoghi vissuti dall’artista. E poi ci sono le parole di Segantini, la profondità e l’intelligenza dei sui scritti che caldamente ci accompagnano nel suo pensiero e ci rivelano la sua grandezza.

«Non lasciai mai oziare né la mente né il cuore, e da loro compresi il segreto della vita e dell’amore»

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Se i poster dei film nominati agli Oscar dicessero la verità

Manca all’incirca un mese alla serata di premiazione degli Oscar, ma le congetture su chi vincerà le ambite statuette già si sprecano.
Sarà l’anno di Leonardo Di Caprio? Oppure dovrà mettersi ancora da parte e lasciare la gloria a qualcun altro – magari più aggraziato di Lady Gaga?

Lady Gaga l'ha già messo in riga

L’Oscar lo vincerà forse Bryan Cranstone, per redimersi dal suo più grande peccato? Per chi non lo sapesse si tratta di aver partecipato al remake di Godzilla nel 2014: non sono cose che si dimenticano.
E se fosse Eddie Redmanye a bissare il successo dell’anno scorso e dare il colpo di grazia al cuore del protagonista di Revenat – Redivivo?
The Martian riuscirà a… No, siamo seri, è già tanto che sia arrivato fin lì e nemmeno Adam Kadmon è riuscito a trovare una spiegazione fin ora.
Ma su Sopravvissuto – The Martian non siamo stati gli unici ad ironizzare, infatti ci ha già pensato TheShiznit.co.uk, che non le ha mandate a dire nemmeno agli altri film che hanno ricevuto una o più nomination.

Il sito britannico ha creato dei poster “onesti” e molto divertenti, che ben riassumono il senso dei lungometraggi candidati, strappando spesso qualche sorriso e non solo.
Ecco a voi quindi il meglio che il cinema ci ha offerto quest’anno, presentato in modo “onesto”!

Revenant – Redivivo
Nomination nelle categorie: 
miglior film, miglior attore protagonista, miglior regista, miglior attore non protagonista, miglior montaggio, miglior scenografia, miglior fotografia, migliori costumi, miglior trucco e acconciature, migliori effetti speciali, miglior sonoro.

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Il caso Spotlight
Nomination nelle categorie
: miglior film, miglior regia, miglior attore non protagonista, miglior attrice non protagonista, miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio.

SPOTLIGHT

 

La grande scommessa
Nomination nelle categorie
: miglior film, miglior regia, miglior attore non protagonista, miglior sceneggiatura non originale, miglior montaggio.

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The Danish Girl
Nomination nelle categorie
: miglior attore protagonista, miglior attrice non protagonista.

DANISH-GIRL

 

Inside Out
Nomination nelle categorie: miglior sceneggiatura originale, miglior film d’animazione.

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Carol
Nomination nelle categorie: miglior attrice protagonista, miglior attrice non protagonista, miglior sceneggiatura non originale, miglior fotografia, migliori costumi, miglior colonna sonora originale.

 

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Mad Max: Fury Road
Nomination nelle categorie: miglior film, miglior regia, miglior montaggio, miglior scenografia, miglior fotografia, migliori costumi, miglior trucco e acconciature, migliori effetti speciali, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro.

MAD-MAX

 

Sicario
Nomination nelle categorie
: miglior fotografia, miglior montaggio sonoro, miglior colonna sonora originale.

SICARIO

 

Steve Jobs
Nomination nelle categorie: miglior attore protagonista, miglior attrice non protagonista.

steve-jobs

 

Sopravvissuto – The Martian
Nomination nelle categorie: miglior film, miglior attore protagonista, miglior sceneggiatura non originale, miglior scenografia, migliori effetti speciali, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro.

MARTIAN

 

Il ponte delle spie
Nomination nelle categorie: miglior film, miglior attore non protagonista, miglior sceneggiatura originale, miglior scenografia, miglior sonoro, miglior colonna sonora originale.

BRIDGE

 

Joy
Nomination nella categoria: miglior attrice protagonista.

joy

 

Brooklyn
Nomination nelle categorie: miglior film, miglior attrice protagonista, miglior sceneggiatura non originale.

BROOKLYN

 

Room
Nomination nelle categorie: miglior film, miglior regia, miglior attrice protagonista, miglior sceneggiatura non originale.

room

 

The Hateful Eight
Nomination nelle categorie: miglior attrice non protagonista, miglior fotografia, miglior colonna sonora originale.

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EX_MACHINA
Nomination nelle categorie
: miglior sceneggiatura originale, migliori effetti speciali.

EX-MACHINA

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Anche l’Italia ebbe i suoi lager – Giorno della Memoria

«Una sera ‘la tigre’ venne a consegnare due povere donne ebree. Sembra che le dessero fastidio perché, malate, si lamentavano. Vennero finite nel modo più bestiale: spogliate in pieno gennaio, annaffiate con secchi d’acqua, lasciate senza cibo. Madre e figlia. La giovane che tardava a morire, venne affogata in un secchio. Almeno in venti di noi, la udimmo fino all’ultimo rantolo».

Forse leggendo questo estratto penserete che sia la terribile testimonianza di un deportato sopravvissuto ad Aushwitz, Birnkenau o Treblinka. Questa purtroppo è la testimonianza di Enrico Pedrotti e risale a quando era detenuto presso il campo di concentramento di Bolzano, attivo dal 1944 in Italia.

Il campo di Bolzano era un campo di transito (Durchgangslager), dove si ammassavano e smistavano verso la Germania o la Polonia i prigionieri catturati in Italia, anche se una piccola parte dei deportati restava in loco lavorando come schiavi per il lager stesso o per le aziende della vicina zona industriale.

Lo stesso Mike Bongiorno, che era stato arrestato dalla Gestapo mentre svolgeva l’attività di “staffetta” da partigiano, transitò dal lager di Bolzano prima di essere deportato come molti altri prima e dopo di lui: il periodo di permanenza poteva variare da poche settimane a qualche mese, dopo si veniva caricati su treni merci diretti verso i lager nazisti.

Nei lager italiani le angherie e le violenze gratuite nei confronti dei prigionieri erano quotidiane, basti leggere per aver conferma Anche a volerlo raccontare è impossibile, libro edito dal circolo culturale ANPI di Bolzano e consultabile gratuitamente on-line dal sito dell’Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi nazisti, uno dei tanti, tantissimi documenti che testimoniano una delle pagine più tristi della nostra storia.

In Italia erano decine le strutture simili a quella di Bolzano: non c’erano solo campi di concentramento e transito istituiti dalle autorità tedesche (come Bolzano, Fossoli, Borgo San Dalmazzo e la Risiera di San Sabba), ma anche campi di concentramento provinciali istituiti dalla Repubblica Sociale Italiana, che erano molto più numerosi.

Forlì, Bagno a Ripoli, Servigliano, Coreglia Ligure, Bagni di Lucca, Asti, Senigallia, Mantova, Milano (presso il carcere di San Vittore), Vo’ Vecchio, Perugia, Ravenna, Spotorno, Sondrio, Teramo: questi e molti altri luoghi furono accomunati dalla presenza di strutture per il transito, la detenzione e l’eliminazione di un gran numero di detenuti, in prevalenza prigionieri politici ed ebrei.

Qualcuno ancora oggi, poiché non ne conosce la storia, sostiene che esista una netta differenza tra nazismo e fascismo, poiché il fascismo, sempre secondo una sparuta minoranza, non si macchiò degli stessi crimini del nazismo e «Mussolini fece solo l’errore di allearsi con Hitler».

Alla luce del fatto che anche l’Italia ebbe i suoi lager, che collaborò con i nazisti attivamente, rastrellando gli ebrei e altre minoranze per mandarli nei campi di concentramento e sterminio, ha ancora senso difendere l’ideologia che ha permesso questo scempio al giorno d’oggi?

Movimenti e partiti come Casapound o Forza Nuova, che rivendicano con orgoglio la pesante eredità del ventennio fascista, cercano di evitare l’argomento, di nasconderlo, perché è imbarazzante  ammettere il legame con uno dei genocidi più efferati della storia dell’umanità: meglio parlare di alcune piccolezze in cui il fascismo si distingueva dal nazismo o della bonifica dell’Agro Pontino.

Chiunque ancora oggi sostenga che il razzismo del fascismo fosse più “speculativo”, mentre quello della Germania nazista fosse più “materialista”, dato che comportava l’eliminazione fisica, evidentemente vuole occultare la verità che ci ha tramandato la storia, una verità che abbiamo diritto di conoscere e di cui non dobbiamo mai dimenticarci: l’Italia fascista ha fatto parte delle macchina di morte che ha privato della vita circa sei milioni di ebrei.

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Le origini del negazionismo – Giorno della Memoria

Ogni 27 gennaio ricorre il Giorno della Memoria e proprio in questa data, durante il 1945, le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento e sterminio di Auschwitz, ma quello che trovarono andava ben oltre l’umana immaginazione: una spietata macchina di morte e sterminio di massa ideata dall’uomo.

La Shoah è stata una delle pagine più terribili della storia umana, così come il genocidio degli Armeni, quello dei Tutsi, o il massacro dei musulmani bosniaci durante la guerra in Bosnia ed Erzegoniva.

Sono tutti eventi tra i più importanti della storia recente, che ha segnato intere generazioni e il senso stesso di un intero secolo e che hanno contribuito a definire la nostra stessa identità come persone, come popoli o come nazioni.

La Shoah è accaduta e il mondo ha dovuto elaborare ed ancora elabora l’accaduto, eppure c’è chi nega che essa sia mai esistita.

Chi nega viene definito “negazionista”.

Ma cos’è il negazionismo?

Il negazionismo, secondo il professor Joerg Luther dell’Università degli studi di Torino, è «un fenomeno culturale, politico e giuridico non nuovo», che «si manifesta in comportamenti e discorsi che hanno in comune la negazione, almeno parziale, della verità di fatti storici percepiti dai più come fatti di massima ingiustizia e pertanto oggetto di processi di elaborazione scientifica e/o giudiziaria di responsabilità».

Il negazionismo quindi non è un’invenzione moderna: Jean-Baptiste Pérès già nel 1827 scrisse un pamphlet in cui negava addirittura l’esistenza dell’imperatore francese, dicendo che era solo una figura allegorica!

Gli individui che negano l’esistenza dell’Olocausto appartengono a un gruppo molto ristretto che, nonostante le innumerevoli testimonianze e i documenti storici, nega la veridicità di tali prove, affermando che si tratti materiale truccato e definiscono la Shoah come la «menzogna olocaustica».

Per capire qual è il senso originale di questa negazione basti pensare a chi per primo negò lo sterminio sistematico di ebrei, rom, sinti, omosessuali, portatori di handicap, malati di mente e molti altri: Maurice Bardèche. Fu un critico d’arte e giornalista francese, che si dichiarò assolutamente fascista.

Ma perché proprio lui? Perché proprio in Francia?

Dal 1945 in poi lo sterminio degli ebrei è vissuto come uno degli eventi più drammatici della storia contemporanea ed entra a far parte della memoria della coscienza comune: i regimi che ne erano stati la causa subirono un’irrevocabile condanna da parte del mondo.

In Francia, paese in cui una parte della popolazione aderì convinta al Regime di Vichy, la necessità di rielaborare la sconfitta portò i fascisti rimasti a rileggere gli eventi appena trascorsi in modo differente, per riabilitare la propria immagine agli occhi della comunità nazionale e internazionale.

I collaborazionisti e i neonazisti si erano però resi conto che era impossibile ormai sostenere le proprie posizioni, così, per renderle un po’ più accettabili, attenuarono o addirittura rimossero la colpa dell’Olocausto, ovvero il peccato supremo e lo sbaglio più grave.

Il legame tra Germania nazista, regimi fascisti collaborazionisti e sterminio era una colpa evidente, quindi l’unico modo per evitare un’eterna condanna morale era di dichiarare che la Shoah era una macchinazione degli alleati e non era mai accaduta.

In questo contesto si inserisce l’operato di Bardèche, che fu arrestato per collaborazionismo, come il cognato Robert Brasillach, noto collaborazionista fucilato nel 1945.

Bardèche fu il primo in assoluto a contestare l’esistenza delle camere a gas. In generale le varie testimonianze provenienti dai lager per Bardèche non sono attendibili, poiché influenzate dall’orientamento antitedesco di chi le formulava, inoltre i nazisti non avevano mai pianificato né realizzato lo sterminio degli ebrei e di altre minoranze: semmai l’intento era di spostarli ad Oriente, liberando dalla loro presenza l’Europa occidentale.

Risulta evidente che Bardèche esamina la storia con uno sguardo viziato dalla sua ideologia, un’ideologia che non solo impone a priori una certa selezione delle fonti, ma anche una selezione dei fatti da interpretare e la negazione di altri: l’ideologia agisce a priori e distoglie lo sguardo di Bardèche dagli eventi storici ritenuti scomodi.

Lo storico invece opera su tutt’altro piano: raccoglie dati, accetta la pluralità delle fonti ed esamina i vari elementi in maniera scientifica, scevra da preconcetti, cercando di fornire un interpretazione sul come e il perché un evento sia avvenuto, senza che l’esistenza di qualcosa sia condizionato dal proprio credo.

I negazionisti danno un primato assoluto all’ideologia, tanto che la storia viene riletta in modo distorto pur di assecondarla.

Perché Bardèche ed pochi altri hanno avuto il bisogno di nel tempo di negare l’evidenza? Per estrema necessità, perché solo attraverso la negazione della Shoah potevano sperare di continuare a fare politica, in qualche modo.

Il loro tentativo di nascondere la storia ricorda un po’ i bambini che guardano fisso il sole e provano con la mano a nascondere la sua luce, infastiditi: potranno essi stessi non restare abbagliati da quella verità, ma ogni cosa e ogni persona resta illuminata intorno a loro.

Un piccola cerchia di persone, che per un utile politico continua a cercare di nascondere un’incredibile evidenza, meriterebbe la nostra attenzione?

Sembrerebbe di no perché i negazionisti sono uno sparuto gruppo di persone nel mondo Occidentale, ma negli ultimi anni le loro tesi stanno facendo grande presa nel mondo dell’estremismo islamista, perché sono usate per minare le fondamenta dello stato d’Israele, nemico della Palestina: addirittura Mahmud Ahmadinezhād, che è stato Presidente della Repubblica islamica dell’Iran fino all’agosto 2013, ha istituzionalizzato il negazionismo, facendosi promotore egli stesso dell’unica verità, ovvero che l’olocausto non esiste.

Il motivo politico per cui adesso si nega l’Olocausto in medio oriente non è più legato a una restaurazione del nazismo ovviamente, ma una lotta contro il “sionismo”, contro gli ebrei che avrebbero architettato tutto per sfruttare a loro vantaggio il senso di colpa dell’Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale: solo con la «menzogna olocaustica» potevano ottenere uno stato tutto loro.

Sono passati molti anni, eppure l’ideologia riesce ancora a condizionare a priori la visione del mondo di certe persone, a influenzare la capacità di distinguere ciò che è reale e di ciò che non lo è: ormai è evidente che non ha senso lasciare all’ideologia il diritto di scegliere cosa può far parte della storia e cosa no.

Oggi più che mai è importante ricordare il 27 gennaio, perché questa Memoria definisce la società in cui viviamo e definisce anche noi, perché chi vuole rimuovere dall’esistenza un evento del genere cerca di privarci anche di qualcosa che ci appartiene intimamente: la memoria di un passato che non dovrà mai più ripetersi.

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Le 10 opere d’arte più costose della storia

Avete mai letto il libro Lo squalo da 12 milioni di dollari dell’economista Donald Thompson? Lo squalo al quale allude il titolo è quello imbalsamato e protetto in una teca di vetro, una sorta di “scultura” a firma dell’inglese Damien Hirst, venduta a New York nel gennaio 2005 per la “modica” cifra di dodici milioni di dollari.
Se pensate che sia una cifra esagerata e fuori da ogni logica, abbiamo raccolto in una gallery le opere d’arte più care vendute all’asta. Potreste ricredervi.
Date un’occhiata qui sotto e preparatevi a stupirvi ancor più!

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Geoff Caddick/EPA

Dora Maar au Chat (1941) di Pablo Picasso, presso Sotheby’s a Londra, il 22 marzo 2006. Il quadro è stato comprato per la cifra di £51.560.080.

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Bainbridge Auctioneers/PA

Questo vaso cinese di porcellana del XVIII secolo, appartenente alla dinastia Qianlong, è stato un affare da ben £53.100.000, fatto presso la Bainbridges auction house a Londra, il 12 novembre 2010.

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Trittico (1976) di Francis Bacon, il 14 aprile 2008 a Londra, presso Sotheby’s. Acquistato da Roman Abramovich, magnate russo patron della squadra di calcio Chelsea F.C., per il valore di $85.900.000, equivalenti a €54.130.695 odierni.

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Bloomberg/Getty Images

Ritratto di Adele Bloch-Bauer II (1912) di Gustav Klimt, battuto all’asta da Christie’s New York, l’8 novembre 2006. Venduto per $87.936.000.

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John Chapple/Rex Features

Ragazzo con pipa (1905) di Pablo Picasso, presso Sotheby a New York, il 5 maggio 2004. L’opera è stata comprata per $104.168.000.

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Stefan Wermuth/Reuters

L’homme qui Marche I (1961), una scultura di Alberto Giacometti. Venduto il 12 gennaio 2010 da Sotheby, a Londra, per un’inezia: solo £65,001,250 ($105.182.398).

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Bloomberg/Getty Images

Nudo, foglie verdi e busto (1932) di Pablo Picasso, venduto tanto per cambiare da Christie’s a New York, il 30 aprile 2010. L’opera è stata battuta all’asta per la cifra di $106.482.500.

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Mario Tama/Getty Images

L’Urlo (1895) di Edvard Munch, il capolavoro in questione è una delle quattro versioni dell’opera, l’unica posseduta da un privato. Venduto da Sotheby il 2 maggio 2012 a New York. È stato il quadro più costoso fino al 2015: $119,922,500.

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Nu’ couche o Nudo Rosso di Amedeo Modigliani, al quale abbiamo dedicato un approfondimento, aggiudicato all’asta nella sede newyorchese di Christie’s per $171 milioni di dollari il 9 Novembre 2015.

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Pablo Picasso con le sue Donne di Algeri, l’11 Maggio 2015 distrugge tutti i record con 179,4 milioni di dollari, per la casa d’aste Christie’s, che sicuramente non potrà non vantarsi di tutti questi fantastici risultati. Il compratore ha voluto mantenere l’anonimato dopo gli 11 minuti di quella che viene raccontata come la più epica tra le aste.

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Le 4 morti più celebri del misterioso “CLUB 27”

Non è sicuramente un club di cui probabilmente vorreste far parte, poiché gli iscritti sono già tutti “deceduti”, condizione essenziale per essere soci.
Il Club 27 è l’espressione coniata dai giornalisti per indicare tutte le rockstar morte a 27 anni. C’è anche chi ha parlato di una maledizione legata non solo all’età, ma anche alle iniziali, la maledizione del “J27”: i primi quattro grandi artisti che hanno fatto parte del club sono stati Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, morti tutti nel giro di due anni alla stessa età e legati della lettera J.
Le circostanze dei decessi, causati dell’abuso di droghe e farmaci o a condizioni mai del tutto chiarite, hanno alimentato questo falso mito. Come sono morti quindi i primi membri del Club 27?

 

Brian Jones (1942 - 1969) of the group The Rolling Stones playing a harmonica with one hand and clutching a guitar in his other. (Photo by Chris Ware/Getty Images)

(Photo by Chris Ware/Getty Images)

 

Brian Jones (deceduto il 3 luglio 1969): uno dei fondatori dei Rolling Stones, fece uso di cannabis, cocaina e Lsd, ma ebbe anche grossi problemi con l’alcool. Fu trovato annegato ad Hartfield, in Inghilterra, nella sua piscina di casa. Il rapporto del coroner parla di morte per incidente, sottolineando come il cuore e il fegato fossero stati pesantemente compromessi dall’abuso di alcool e droghe. La moglie sin da subito non credette che fosse stato un incidente: mentre la salma veniva ripescata, continuava a urlare e sostenere che fosse ancora vivo, poi accusò Frank Thorogood della morte del marito, un costruttore che si trovava in casa loro per rinnovarla, l’ultima persona ad aver visto Brian in vita. La leggenda (perché non è un fatto provato) vuole che Frank Thorogood abbia confessato in punto di morte a Tom Keylock, autista dei Rolling Stones, di essere stato lui il responsabile della morte di Brian Jones.

 

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Jimi Hendrix (morto il 18 settembre 1970): probabilmente il miglior chitarrista della storia, esempio moderno di genio e sregolatezza. Fu trovato senza vita nell’appartamento che aveva affittato al Samarkand Hotel, al 22 di Lansdowne Crescent a Londra. La polizia dichiarò che l’artista morì durante la notte, ma la ragazza di Hendrix, tale Monika Dannemann, riferisce di come abbiano chiacchierato amabilmente fino alle 7 del mattino e di averlo trovato, dopo le 10.30, riverso in una pozza di vomito, causato da un cocktail di alcool e tranquillanti. Secondo una delle versioni della morte data dalla Dannemann, Hendrix all’arrivo dei soccorsi sarebbe stato ancora vivo, ma i paramedici non si sarebbero adoperati per fare tutto il possibile per salvarlo, quindi potrebbe essere soffocato durante il trasporto in ospedale a causa del vomito, in assenza di un supporto adeguato sotto la sua testa.

 

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Janis Joplin (deceduta il 4 ottobre del 1970): la morte fu causata da overdose di eroina, la meno misteriosa dei decessi del club J27. Il cadavere fu rinvenuto nella stanza di un motel di Hollywood, ben 18 ore dopo il decesso, con il viso riverso sul pavimento, con fuoriuscite di sangue, ormai coagulato, da naso e bocca. La posizione del corpo, incastrato fra il comodino e il letto, evidenziò la mancanza di qualsiasi riflesso teso a evitare l’ostacolo. Il corpo dell’artista fu cremato a e le sue ceneri furono sparse nell’oceano Pacifico.

 

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Jim Morrisson (morto il 3 luglio 1971): trasferitosi a Parigi per dedicarsi alla poesia e alla disintossicazione dall’alcol, fu ritrovato senza vita in casa dalla moglie, dentro la vasca da bagno. Non fu mai eseguita alcuna autopsia, questo è il vero mistero: ufficialmente la causa di morte nei referti medici è “infarto”. I complottisti a questo punto si dividono: c’è chi dice che in realtà sia morto dopo un overdose di eroina (infatti spesso chi si trova in questo stato viene portato nella vasca da bagno per riprendersi); c’è chi sostiene che in realtà abbia inscenato la sua morte, con la collaborazione della moglie Pamela, per sottrarsi alle pressione dei mass media e ricominciare una nuova vita. Ci troviamo sicuramente davanti la morte più misteriosa avvolta da circostanze fumose e dubbie, conoscendo i precedenti legati ad abuso di dorghe a all’alcolismo, perché nessuno pensò che fosse necessaria l’autopsia?

Queste sono le storie dei primi quattro membri del Club J27, che sarebbe poi diventato il Club 27 con il triste ingresso di altri grandi artisti, come Alan Wilson, Kurt Cobain, Amy Winehouse e molti altri.
Qual è la verità quindi? Sono morti dovute a una maledizione? A un complotto della Cia per eliminare artisti controversi dalla scena? Oppure il risultato di una vita di eccessi, senza mezze misure?

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Antonio Vicentini, chi?

Arte Rivista – Milano

Nel suo sito boobiesareawesome (il cui nome è tutto un programma) si descrive come un «Homo sapiens brasiliano concentrato su animazione, sketeboarding, tette e birra».
In realtà è anche qualcosa in più: animatore talentuoso e irriverente regista. Antonio ha già lavorato per BIC Italy, Band-aid, Coca-Cola, Ford, Google, Gloob, Intel Brasil, Microsoft, Netflix, Nintendo, Ovomaltine, Old Spice, Old Navy, Toyota, Kia e molti altri ancora!
Ha recentemente presentato al Milano Film Festival un corto dal nome A bried history of skaterboarding, che raccontava in modo ironico e originale la storia dello skate.
ArteRivista vi presenta Antonio Vicentini.

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Antonio, già il nome del tuo sito rivela una delle tue passioni. Oltre le “tette” e lo skateboarding quali sono le altre?
Senz’altro l’animazione e il mondo del cinema. Sono cose che mi piacciono moltissimo.

Come mai hai deciso di fare un film sulla storia dello skateboarding?
Perché è la cosa che più mi ha influenzato nella mia crescita. La gran parte dei miei migliori amici sono skaters, e la gran parte delle cose che mi ispirano, graficamente parlando, provengono dall’industria dello skateboarding, dai suoi artisti e dal modo di vivere legato allo skate. È stato un umile tributo a un pezzo di legno con le ruote, che ha cambiato la mia vita.

Ti ricordi la prima volta in cui sei saltato su uno skate?
Non esattamente, ma mi ricordo la prima volta che ho visto uno skater impressionante, mentre sfrecciava per strada, facendo cose meravigliose come degli ollies o dei kickflips. Quella roba mi aveva stregato. Avevo quattordici anni quando, qualche mese dopo, ho deciso di farmi prestare da mio cugino uno skate: un nuovo universo era stato scoperto.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Ho in mente un corto in stop motion, che parlerà di depressione, burnout e droghe – un po’ quello che mi accade quando lavoro con le animazioni in stop motion. È una sofferenza lavorare con questa tecnica, ma il risultato finale è così bello ed affascinante! Devo provare a farlo, anche se so che il risultato potrebbe essere pessimo.
Oltre questo, cerco sempre di imparare nuove tecniche e di fare evolvere le mie abilità nel campo dell’animazine, del design e della regia.

Come sarà il prossimo lavoro di Antonio? Ancora non lo sappiamo, ma se continuerà su questa strada di sicuro non sarà affatto banale, magari sarà sfacciato, di sicuro molto originale.

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Eggplant: due chiacchiere con l’autrice

Arte Rivista – Milano

E se le nostre emozioni fossero completamente diverse viste da fuori? Se il nostro volto facesse trasparire sentimenti opposti a quelli che proviamo? Come ci relazioneremmo con gli altri e con il mondo?

 

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A questa domanda ha provato ha dare risposta Yangzi She, regista di Eggplant, uno dei corti più apprezzati del Milano Film Festival.
Il protagonista è Durian, un bambino che dalla nascita sorride quando è triste, piange quando è felice, ride quando soffre.
Un cortometraggio davvero profondo, che tratta temi importanti come l’incomunicabilità, il conformismo e la solitudine.

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Abbiamo intervistato per voi la signorina She, promettente animatrice e regista cinese, che ormai lavoro in pianta stabile a Los Angeles.
Quando è nata la tua passione per l’animazione?
Ho sempre amato l’animazione sin da quando riesco a ricordare, e ho iniziato ad amare il lavoro dell’animatrice fin da quando frequentavo le prime lezioni alla scuola d’animazione, nel 2010.

Hai un modello per il tuo lavoro? Cosa ha ispirato la tua storia?
Non c’è un modello specifico per questo lavoro. Stavo scrivendo una storia in lingua cinese, ma ho avuto problemi a tradurla in inglese per il corso di critica. Andavano perse così tante informazioni e sfumature, che alla fine ho pensato di scrivere questa storia riguardo Durian.

Con quale dei due personaggi del tuo corto ti identifichi di più: Durian o il fotografo?
Forse con entrambi. Sono una straniera negli Stati Uniti, perciò ci sono molti momenti in cui mi sento come Durian. In alcuni casi, come per esempio al lavoro, sono davvero felice di fare del mio meglio per adattarmi, e ho un fotografo dentro il mio cuore che controlla se sto facendo la cosa giusta. Altre volte cerco di seguire soltanto la strada che mi fa sentire più a mio agio.

Uno dei temi trattati in Eggplant è la comunicazione. Considerata la tua esperienza, hai mai avuto problemi in quest’ambito?
Sì, esatto. Sto lavorando o meno più come traduttrice adesso, e spesso le persone mi dicono che a loro non sembra che io abbia problemi ad esprimere le mie idee in inglese, ma, attualmente, cerco di evitare argomenti di cui non saprei parlare correttamente in inglese, e sono consapevole di quanto sia limitato questo mio raggio d’azione.

Quanto tempo ha richiesto la realizzazione del tuo cortometraggio?
Eggplant è stata la mia tesi per il master in animazione presso la UCLA, ho avuto un anno per completarlo, cioè la durata del master, ma non ci ho lavorato sopra tutto il tempo.

Qual è il tuo cortometraggio d’animazione preferito?
Mi piace moltissimo Marilyn Miller di Mikey Please ed ho guardato molte volte il suo corto The Eagleman Stag, mentre stavo scrivendo Eggplant.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Adesso sto lavorando su una storia e spero di farne un cortometraggio o una graphic novel.

 

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Animazione ed animazioni al Parco Sempione

Arte Rivista – Milano

Lunedì, nella suggestiva cornice di Parco Sempione, si è svolta la maratona dei cortometraggi di animazione, evento tra i più interessanti del Milano Film Festival.

 
Sono stati 31 i cortometraggi proiettati (con qualche intoppo per Whole), per una durata totale di circa 4 ore. Uno degli aspetti più notevoli è la gran varietà di tecniche d’animazione messe in mostra durante la serata: dall’animazione tradizionale all’animazione computerizzata, passando anche attraverso tecniche nuove e sperimentali come quella mostra in Lam 2: Red Hands, tecnica che sfrutta l’uso dell’acqua e dell’inchiostro.

 
Tra i più applauditi e apprezzati figura Golden Shot, di Gökalp Gönen, giovane e talentuoso animatore turco, che ci ha portato in futuro oscuro, un mondo buio, abitato da soli robot che sopravvivono grazie alla luce di alcune piccole lampadine industriali. L’autore stesso, intervistato sul palco prima della proiezione, ha posto la seguente domanda agli spettatori, legata al senso del suo lavoro: «Se voi aveste un pezzo di cioccolata, davvero grande, preferireste mangiarlo un pezzettino alla volta? O Preferireste mangiarlo tutto e subito?», domanda a cui Gökalp ha dato la sua personale risposta nel cortometraggio, probabilmente.
Oltre a Golden Shot, ha confermato le aspettative Beach Flags, di Sarah Saidan, che racconta la storia di Vida, una giovane iraniana che sogna di partecipare ai campionati mondiali per bagnine che si terranno in Australia. Vida è praticamente certa del suo posto in squadra, almeno fino all’arrivo di Sareh, che cambierà ogni cosa ed anche un po’ Vida.
Sicuramente tra i più toccanti, è stata apprezzata la delicatezza e la semplicità con cui è stata raccontata una storia in realtà molto complessa, piena di sfaccettature, che affronta varie tematiche: il ruolo della donna nella società iraniana, l’autodeterminazione, il sacrificio, il destino e la speranza. Da vedere e rivedere.

 
La maratona ha portato in scena cortometraggi provenienti da un gran numero di paesi diversi, alcuni molto divertenti (come Jean-Michel, Le caribou des bois, Rainbow: a story about life, Slaves of the raves, il piacevolissimo Changeover), altri caratterizzati da una satira molto pungente (A brief history of skateboarding, Guide to fetal developement, Sex & Taxes).
Non è stato trascurato il tema dell’immigrazione, affrontato da My Dad, ma soprattutto da Elmando di Anton Octavian: perfetto connubio di musica, immagini ed emozioni.
Per chi si fosse perso la maratona in parco Sempione, questa sera, alle ore 20.00 presso il MIMAT sarà possibile assistere alla replica.

 
Noi vi consigliamo caldamente di partecipare, anche se non siete addetti ai lavori, perché molti di questi corti sono toccanti e riescono ad essere godibili anche ad un pubblico “profano”, ma curioso.

 
Non mi resta che augurarvi buona visione!

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XX Milano Film Festival – Parliamo di animazione

Arte Rivista – Milano

Il Milano Film Festival compie 20 anni, confermandosi impegnato nella ricerca di nuovi talenti, ma anche attento alle innovazioni in campo cinematografico.
Oltre agli 11 lungometraggi in concorso (tutti e undici in anteprima nazionale) e ai 54 cortometraggi, saranno presenti numerose rassegne fuori concorso, che abbracceranno varie tematiche e modi di fare cinema.
Concentrandosi sulla parte visivamente artistica del festival, tra le più interessanti rassegne ci sarà il Focus Animazione, a cura di Andrea Lavagnini e Carla Vulpiani, che inizierà con la proiezione dell’ultimo film di Tomm Moore, ovvero Song of the Sea, che ha ricevuto una nomination ai Premi Oscar 2015 come miglior film d’animazione. Il film verrà proiettato venerdì 11 alle ore 20.00 al MIMAT, sabato 19 alle 15.00 al Teatro Strehler e domenica 20 alle 11.00 al Barrio’s.

Song of the Sea

Song of the Sea

Song of the Sea narra le vicende di Ben e Saoirse, che vivono con il papà, guardiano del faro di un isolotto. Un viaggio alla riscoperta dei legami familiari e attraverso le leggende celtiche, sicuramente da non perdere!
Altro evento imperdibile è la maratona di cortometraggi d’animazione, cui si potrà assistere in Parco Sempione lunedì 14 a partire dalle 21.00 oppure mercoledì 16 alle 20.00 presso il MIMAT. Quest’anno saranno presenti ben 32 cortometraggi tra cui segnaliamo: Beach Flags, la storia di una bagnina iraniana, di Sarah Saidan; Eggplant di Yangzi She, la storia di un ragazzo le cui reazione sono opposte a quelle delle persone comuni; Golden Shot, di Gökalp Gönen, parla di un mondo in cui gli ultimi abitanti della terra sono dei robot e la luce di alcune lampadine l’unica forma di energia.
Sarà possibile anche partecipare a un workshop d’animazione dal nome Hands on paper, organizzato in collaborazione con Tiger Italia, che sarà guidato dalle due giovani animatrici Veronika Obertová e Michaela Copíková, che hanno sviluppato una forte esperienza nel campo della paper motion, con il loro studio Ové Pictures. Il workshop si svolgerà presso lo spazio Careof (alla Fabbrica del Vapore), dal 17 al 19 settembre, dalle ore 11.00 alle ore 13.00 e dalle ore 14.00 alle ore 18.00.
Concludendo, ci sarà anche spazio per i più piccoli con il Milano Film Festivalino, che quest’anno si terrà in Cascina Cuccagna, con laboratori e proiezioni in collaborazione con Bosch.

 

Tripbook

Promo Festvialino

La prima parte dei corti d’animazione si potrà vedere sabato 12 alle ore 15.00 o domenica venti alle ore 15, mentre la seconda parte dei corti verrà proiettata domenica 13 alle 15.00 e sabato 19 alle ore 15.00.
Anche quest’anno gli appassionati di animazione non potranno che rimanere soddisfatti!