Category Archives: Inchieste dal mondo

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Capolavori rubati, il libro di Luca Nannipieri presentato nei più grandi musei italiani

Arte Rivista, Milano

Consacrazione nei più grandi musei italiani per il critico d’arte Luca Nannipieri, che sta tenendo nelle sedi museali nazionali più importanti le sue conferenze sull’arte. 

Nannipieri è diventato in poco tempo un personaggio conosciutissimo, grazie soprattutto alle sue scoperte e al suo modo di affrontare il mondo dell’arte, assolutamente giovane e attuale. Il suo ultimo libro, “Capolavori rubati”, racconta l’arte in una chiave insolita, ovvero attraverso le opere che non ci sono più, perché sono state rubate, depredate, saccheggiate, sono state oggetto di appropriazioni indebite o razzie.

Si parte il 12 settembre con la Pinacoteca di Brera a Milano, museo che ospita i capolavori di Raffaello, Caravaggio, Tiziano, e che accoglierà a partire dalle ore 18.30 la conferenza di Luca Nannipieri dedicata ai grandi capolavori rubati. Partecipano illustri mercanti e fondazioni d’arte, come la Fondazione Mazzoleni, Fondazione Hruby, Francesco Boni e Francesca Sacchi Tommasi.

Si proseguirà poi con i Musei Capitolini a Roma, il MAMbo Museo d’arte Moderna di Bologna, il Museo CAMeC Centro Arte Moderna di La Spezia, l’Auditorium di Pompei-Napoli, il Museo delle Navi Antiche di Pisa: ecco i musei che ospiteranno le lezioni del critico e storico dell’arte, conosciuto anche per le sue rubriche televisive d’arte in RAI, da cui sono stati tratti libri editi da Skira.

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Il mercato dell’arte torna a crescere

Arte Rivista – Milano

Buone notizie per il mercato dell’arte che torna a crescere con un incremento del 5,3% registrato nei primi sei mesi del 2017. E’ quanto è emerso dal Global Art Market Report di Artprice.com, che dopo due anni consecutivi di frenata, ha stimato un bilancio positivo per il mercato dell’arte, con le aste internazionali che hanno fruttato 6,9 miliardi di dollari nel primo semestre.

Sono stati soprattutto gli Stati Uniti a trainare le vendite (+ 28%), mentre è rallentato il mercato cinese; l’Italia occupa il sesto posto con 95 milioni di dollari di ricavo. A dominare le aste sono le opere d’arte contemporanea, che rappresentano attualmente il 15% del mercato totale.

Nella classifica delle opere top, troviamo al primo posto il dipinto “Untitled” del 1982 di Jean-Michel Basquiat, battuto a oltre 110 milioni di dollari da Sotheby’s a New York a maggio. Segue il paesaggio “Bauerngarten” di Gustav Klimt, battutto a 59 milioni di dollari a Londra, e poi opere di Cy Twombly, Francis Bacon, e l’immancabile Picasso: il pittore spagnolo domina la classifica complessiva di vendite con oltre 280 milioni di dollari di ricavo.

 

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Anche l’Italia ebbe i suoi lager – Giorno della Memoria

«Una sera ‘la tigre’ venne a consegnare due povere donne ebree. Sembra che le dessero fastidio perché, malate, si lamentavano. Vennero finite nel modo più bestiale: spogliate in pieno gennaio, annaffiate con secchi d’acqua, lasciate senza cibo. Madre e figlia. La giovane che tardava a morire, venne affogata in un secchio. Almeno in venti di noi, la udimmo fino all’ultimo rantolo».

Forse leggendo questo estratto penserete che sia la terribile testimonianza di un deportato sopravvissuto ad Aushwitz, Birnkenau o Treblinka. Questa purtroppo è la testimonianza di Enrico Pedrotti e risale a quando era detenuto presso il campo di concentramento di Bolzano, attivo dal 1944 in Italia.

Il campo di Bolzano era un campo di transito (Durchgangslager), dove si ammassavano e smistavano verso la Germania o la Polonia i prigionieri catturati in Italia, anche se una piccola parte dei deportati restava in loco lavorando come schiavi per il lager stesso o per le aziende della vicina zona industriale.

Lo stesso Mike Bongiorno, che era stato arrestato dalla Gestapo mentre svolgeva l’attività di “staffetta” da partigiano, transitò dal lager di Bolzano prima di essere deportato come molti altri prima e dopo di lui: il periodo di permanenza poteva variare da poche settimane a qualche mese, dopo si veniva caricati su treni merci diretti verso i lager nazisti.

Nei lager italiani le angherie e le violenze gratuite nei confronti dei prigionieri erano quotidiane, basti leggere per aver conferma Anche a volerlo raccontare è impossibile, libro edito dal circolo culturale ANPI di Bolzano e consultabile gratuitamente on-line dal sito dell’Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi nazisti, uno dei tanti, tantissimi documenti che testimoniano una delle pagine più tristi della nostra storia.

In Italia erano decine le strutture simili a quella di Bolzano: non c’erano solo campi di concentramento e transito istituiti dalle autorità tedesche (come Bolzano, Fossoli, Borgo San Dalmazzo e la Risiera di San Sabba), ma anche campi di concentramento provinciali istituiti dalla Repubblica Sociale Italiana, che erano molto più numerosi.

Forlì, Bagno a Ripoli, Servigliano, Coreglia Ligure, Bagni di Lucca, Asti, Senigallia, Mantova, Milano (presso il carcere di San Vittore), Vo’ Vecchio, Perugia, Ravenna, Spotorno, Sondrio, Teramo: questi e molti altri luoghi furono accomunati dalla presenza di strutture per il transito, la detenzione e l’eliminazione di un gran numero di detenuti, in prevalenza prigionieri politici ed ebrei.

Qualcuno ancora oggi, poiché non ne conosce la storia, sostiene che esista una netta differenza tra nazismo e fascismo, poiché il fascismo, sempre secondo una sparuta minoranza, non si macchiò degli stessi crimini del nazismo e «Mussolini fece solo l’errore di allearsi con Hitler».

Alla luce del fatto che anche l’Italia ebbe i suoi lager, che collaborò con i nazisti attivamente, rastrellando gli ebrei e altre minoranze per mandarli nei campi di concentramento e sterminio, ha ancora senso difendere l’ideologia che ha permesso questo scempio al giorno d’oggi?

Movimenti e partiti come Casapound o Forza Nuova, che rivendicano con orgoglio la pesante eredità del ventennio fascista, cercano di evitare l’argomento, di nasconderlo, perché è imbarazzante  ammettere il legame con uno dei genocidi più efferati della storia dell’umanità: meglio parlare di alcune piccolezze in cui il fascismo si distingueva dal nazismo o della bonifica dell’Agro Pontino.

Chiunque ancora oggi sostenga che il razzismo del fascismo fosse più “speculativo”, mentre quello della Germania nazista fosse più “materialista”, dato che comportava l’eliminazione fisica, evidentemente vuole occultare la verità che ci ha tramandato la storia, una verità che abbiamo diritto di conoscere e di cui non dobbiamo mai dimenticarci: l’Italia fascista ha fatto parte delle macchina di morte che ha privato della vita circa sei milioni di ebrei.

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Le origini del negazionismo – Giorno della Memoria

Ogni 27 gennaio ricorre il Giorno della Memoria e proprio in questa data, durante il 1945, le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento e sterminio di Auschwitz, ma quello che trovarono andava ben oltre l’umana immaginazione: una spietata macchina di morte e sterminio di massa ideata dall’uomo.

La Shoah è stata una delle pagine più terribili della storia umana, così come il genocidio degli Armeni, quello dei Tutsi, o il massacro dei musulmani bosniaci durante la guerra in Bosnia ed Erzegoniva.

Sono tutti eventi tra i più importanti della storia recente, che ha segnato intere generazioni e il senso stesso di un intero secolo e che hanno contribuito a definire la nostra stessa identità come persone, come popoli o come nazioni.

La Shoah è accaduta e il mondo ha dovuto elaborare ed ancora elabora l’accaduto, eppure c’è chi nega che essa sia mai esistita.

Chi nega viene definito “negazionista”.

Ma cos’è il negazionismo?

Il negazionismo, secondo il professor Joerg Luther dell’Università degli studi di Torino, è «un fenomeno culturale, politico e giuridico non nuovo», che «si manifesta in comportamenti e discorsi che hanno in comune la negazione, almeno parziale, della verità di fatti storici percepiti dai più come fatti di massima ingiustizia e pertanto oggetto di processi di elaborazione scientifica e/o giudiziaria di responsabilità».

Il negazionismo quindi non è un’invenzione moderna: Jean-Baptiste Pérès già nel 1827 scrisse un pamphlet in cui negava addirittura l’esistenza dell’imperatore francese, dicendo che era solo una figura allegorica!

Gli individui che negano l’esistenza dell’Olocausto appartengono a un gruppo molto ristretto che, nonostante le innumerevoli testimonianze e i documenti storici, nega la veridicità di tali prove, affermando che si tratti materiale truccato e definiscono la Shoah come la «menzogna olocaustica».

Per capire qual è il senso originale di questa negazione basti pensare a chi per primo negò lo sterminio sistematico di ebrei, rom, sinti, omosessuali, portatori di handicap, malati di mente e molti altri: Maurice Bardèche. Fu un critico d’arte e giornalista francese, che si dichiarò assolutamente fascista.

Ma perché proprio lui? Perché proprio in Francia?

Dal 1945 in poi lo sterminio degli ebrei è vissuto come uno degli eventi più drammatici della storia contemporanea ed entra a far parte della memoria della coscienza comune: i regimi che ne erano stati la causa subirono un’irrevocabile condanna da parte del mondo.

In Francia, paese in cui una parte della popolazione aderì convinta al Regime di Vichy, la necessità di rielaborare la sconfitta portò i fascisti rimasti a rileggere gli eventi appena trascorsi in modo differente, per riabilitare la propria immagine agli occhi della comunità nazionale e internazionale.

I collaborazionisti e i neonazisti si erano però resi conto che era impossibile ormai sostenere le proprie posizioni, così, per renderle un po’ più accettabili, attenuarono o addirittura rimossero la colpa dell’Olocausto, ovvero il peccato supremo e lo sbaglio più grave.

Il legame tra Germania nazista, regimi fascisti collaborazionisti e sterminio era una colpa evidente, quindi l’unico modo per evitare un’eterna condanna morale era di dichiarare che la Shoah era una macchinazione degli alleati e non era mai accaduta.

In questo contesto si inserisce l’operato di Bardèche, che fu arrestato per collaborazionismo, come il cognato Robert Brasillach, noto collaborazionista fucilato nel 1945.

Bardèche fu il primo in assoluto a contestare l’esistenza delle camere a gas. In generale le varie testimonianze provenienti dai lager per Bardèche non sono attendibili, poiché influenzate dall’orientamento antitedesco di chi le formulava, inoltre i nazisti non avevano mai pianificato né realizzato lo sterminio degli ebrei e di altre minoranze: semmai l’intento era di spostarli ad Oriente, liberando dalla loro presenza l’Europa occidentale.

Risulta evidente che Bardèche esamina la storia con uno sguardo viziato dalla sua ideologia, un’ideologia che non solo impone a priori una certa selezione delle fonti, ma anche una selezione dei fatti da interpretare e la negazione di altri: l’ideologia agisce a priori e distoglie lo sguardo di Bardèche dagli eventi storici ritenuti scomodi.

Lo storico invece opera su tutt’altro piano: raccoglie dati, accetta la pluralità delle fonti ed esamina i vari elementi in maniera scientifica, scevra da preconcetti, cercando di fornire un interpretazione sul come e il perché un evento sia avvenuto, senza che l’esistenza di qualcosa sia condizionato dal proprio credo.

I negazionisti danno un primato assoluto all’ideologia, tanto che la storia viene riletta in modo distorto pur di assecondarla.

Perché Bardèche ed pochi altri hanno avuto il bisogno di nel tempo di negare l’evidenza? Per estrema necessità, perché solo attraverso la negazione della Shoah potevano sperare di continuare a fare politica, in qualche modo.

Il loro tentativo di nascondere la storia ricorda un po’ i bambini che guardano fisso il sole e provano con la mano a nascondere la sua luce, infastiditi: potranno essi stessi non restare abbagliati da quella verità, ma ogni cosa e ogni persona resta illuminata intorno a loro.

Un piccola cerchia di persone, che per un utile politico continua a cercare di nascondere un’incredibile evidenza, meriterebbe la nostra attenzione?

Sembrerebbe di no perché i negazionisti sono uno sparuto gruppo di persone nel mondo Occidentale, ma negli ultimi anni le loro tesi stanno facendo grande presa nel mondo dell’estremismo islamista, perché sono usate per minare le fondamenta dello stato d’Israele, nemico della Palestina: addirittura Mahmud Ahmadinezhād, che è stato Presidente della Repubblica islamica dell’Iran fino all’agosto 2013, ha istituzionalizzato il negazionismo, facendosi promotore egli stesso dell’unica verità, ovvero che l’olocausto non esiste.

Il motivo politico per cui adesso si nega l’Olocausto in medio oriente non è più legato a una restaurazione del nazismo ovviamente, ma una lotta contro il “sionismo”, contro gli ebrei che avrebbero architettato tutto per sfruttare a loro vantaggio il senso di colpa dell’Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale: solo con la «menzogna olocaustica» potevano ottenere uno stato tutto loro.

Sono passati molti anni, eppure l’ideologia riesce ancora a condizionare a priori la visione del mondo di certe persone, a influenzare la capacità di distinguere ciò che è reale e di ciò che non lo è: ormai è evidente che non ha senso lasciare all’ideologia il diritto di scegliere cosa può far parte della storia e cosa no.

Oggi più che mai è importante ricordare il 27 gennaio, perché questa Memoria definisce la società in cui viviamo e definisce anche noi, perché chi vuole rimuovere dall’esistenza un evento del genere cerca di privarci anche di qualcosa che ci appartiene intimamente: la memoria di un passato che non dovrà mai più ripetersi.

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Libri distillati, i pro e i contro della nuova moda editoriale

Arte Rivista – Milano

«Abbiamo ridotto le pagine, non il piacere»

Con queste parole d’ordine la casa editrice Centauria ha dato vita a una nuova serie di best seller della narrativa italiana e internazionale. La particolarità? Essere riproposti in versione “digest”, distillata. L’obbiettivo è quello di offrire ai lettori la possibilità di godersi le storie più avvincenti in meno della metà delle pagine dell’originale. A dicembre sono usciti in edicola i primi due romanzi di successo, Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson, ridotto da 600 a 240 pagine, e Venuto al mondo di Margaret Mazzantini, che da 400 pagine è passato a 200. Nei prossimi mesi la “strizzatura” toccherà anche a opere quali Il Dio del fiume di Wilbur Smith, La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, Le parole che non ti ho detto di Nicholas Sparks e Il socio di John Grisham.

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«L’idea alla base dei distillati – ci dice Giulio Lattanzi, ideatore e responsabile del progetto – è che esistono oggi molti lettori che pensano di non avere abbastanza tempo da dedicare alla lettura. Abbiamo quindi pensato di offrire loro, ma anche a chi è impegnato in viaggi in treno o in aereo, romanzi di successo ristretti per essere letti nel tempo di un film». Importante è ricordare che non si tratta di riassunti, ma di distillati: «Il processo di riduzione – continua Lattanzi –  è opera di un team editor di esperti, che lavorano sul testo originale per passaggi successivi. Gli autori hanno ovviamente acconsentito all’operazione ma non sono intervenuti nella distillazione».

Come previsto l’iniziativa ha prodotto una serie di reazioni contrastanti, dove le critiche si sono susseguite soprattutto sui social. Sulla pagina Facebook del progetto  non sono mancati i commenti che tacciano l’iniziativa di “anoressia culturale” e di scarso rispetto verso i lettori, “evidentemente poco stimati se occorre addirittura proporre loro un prodotto masticato da altri”. Della stessa idea sono stati anche blogger e redattori indignati, i quali sostengono che un grande libro non debba essere misurato sulla base dello spessore, ma dalla densità emotiva che riesce ad evocare: per loro un libro distillato non può che essere un tradimento dell’autorialità a beneficio di una pura esigenza di mercato. «Non stiamo parlando di microlibri di consultazione, come i Bignami, ma di romanzi mutilati, dimezzati e snaturati», ha detto il giornalista e scrittore Davide Mazzocco su Blogo.

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Ma la situazione è davvero così nera come ce la presenta quest’orda di lettori indignati sul web? Abbiamo chiesto un parere sulla questione a Roberto Cicala, professore di Editoria libraria multimediale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano:

«La proposta in effetti può far storcere il naso – ci dice – ma come ogni prodotto di cucina editoriale conta come sia stato preparato e quale sia il target di riferimento. Tagli in editoria ci sono sempre stati: a partire dagli anni Venti, quando i primi libri della collana dei Gialli Mondadori venivano privati di divagazioni letterarie e approfondimenti psicologici per risultare più popolari, nonostante fossero scritti da autori importanti. Successivamente ci sono state anche altre proposte di riduzioni, soprattutto di articoli o saggi, a cominciare dalla fortunatissima rivista americana (stampata anche in Italia fino a qualche anno fa) “Selezione dal Reader’s Digest”. Il punto, in ogni caso, resta la differenza tra editoria e letteratura: occorre capire che cosa si intende per l’una e per l’altra. Soprattutto però conta il modo con cui si fa l’operazione redazionale: se il taglio, o antologizzazione, o distillazione che dir si voglia, lo facesse l’autore stesso (come è avvenuto per certe riduzioni scolastiche di opere presso Einaudi ), allora l’operazione avrebbe un significato e un valore non del tutto criticabile. Sarebbe quasi una sfida, ma sempre nell’idea di una “riduzione” letteraria. È giusto che l’editoria sia facile, ma ecco dove sta il discrimine: la vera letteratura non deve essere facile ad ogni costo».

This week the Disneyland Resort unveiled its own cell-phone application that allows guests to see wait times at both of its Anaheim theme parks, locate costumed characters and buy park tickets and book dining reservations. The app, called Disneyland, is available for free on Google Play for Android users and at the Apple Store.

Disneyland, a Parigi il vero divertimento è per gli adulti “smart”

Arte Rivista – Parigi

Il suo slogan lo definisce “Il posto più felice della Terra”. Ma questo, aggiungiamo noi, non vale solo per i piccoli visitatori di Disneyland Paris. Se nel 2014 sono passati per il castello rosa della Bella addormentata nel bosco (simbolo dell’ingresso al parco divertimenti più visitato d’Europa) ben 14,2 milioni di visitatori, è innegabile che tra questi ci fossero anche molti adulti. Ma come sta fronteggiando  l’evoluzione tecnologica che coinvolge tutto il mondo? Eurodisney sta diventando una piccola smart city che gli adulti, “social” o meno, possono sfruttare al meglio per vivere una vacanza secondo le loro esigenze.

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I passi che negli anni Disneyland ha fatto in questa direzione sono stati diversi. Tra i primi c’è il Baby Switch, dedicato a quei genitori che vogliono provare le attrazioni più adrenaliniche ma che hanno figli piccoli che non possono salire: a loro è permesso fare la corsa uno per volta ma in un’unica fila, in modo che mentre uno si diverte sull’attrazione l’altro si prende cura dei bambini, per poi darsi il cambio. C’è poi lo Shopping Service, attivo ogni giorno fino al pomeriggio, che permette di fare acquisti senza l’impiccio dei sacchetti: basta lasciarli alla boutique dove si sono effettuati gli acquisti e ritirarli in serata al Disney Store che si trova nel Village (la via dei negozi e ristoranti del Resort) o alla boutique dell’hotel in cui si soggiorna. In questo modo è molto più facile passare da un’attrazione all’altra.

I primi accenni di tecnologia sono arrivati nel 1999, con l’introduzione del Fastpass a Walt Disney World in Florida, successivamente importato anche a Parigi. Il Fastpass è un servizio che permette di saltare le code, o almeno una gran parte, in alcune delle attrazioni con maggiore affluenza. Per usufruirne basta scansionare il QR Code del biglietto d’ingresso ai distributori automatici che si trovano all’esterno delle attrazioni: si otterrà così un biglietto cartaceo che riporta la fascia oraria della corsa per evitare lunghe file. Ma attenzione: per potere ottenere un nuovo Fastpass devono trascorrere due ore dall’emissione del precedente ticket.

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Non mancano poi i metodi a pagamento. Per esempio, alloggiando al Disneyland Hotel, l’albergo alle porte del Parco Disneyland (che è anche il più caro tra i sette del complesso), o nelle camere di categoria superiore si avrà un Fastpass Hotel, che permette di avere un voucher a persona e al giorno per un’attrazione a scelta tra quelle che erogano il servizio. Non può, però, essere utilizzato tra le 13 e le 16. Una piccola seccatura, dal momento che la fascia oraria tra le 12 e le 16 è solitamente quella più affollata. Ma non temete: se mettete mano al portafogli e alloggiate in una suite avrete addirittura il VIP Fastpass, che offre accesso illimitato a tutte le attrazioni dotate di ingresso Fastpass. Per avere questo lusso, dal 2009 non è più necessario aver prenotato una suite: basta pagare 60 Euro a persona e al giorno per avere il Premium Fastpass, che dà gli stessi vantaggi del VIP. Insomma, comfort sì, ma a che prezzo..

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Meglio tornare ai trucchi gratuiti. Per cercare di ottimizzare i tempi e stare in attesa in modo intelligente ci sono anche le Extra Magic Hours (EMH), introdotte nel 2007: chiunque alloggi in un Hotel Disney può accedere al Parco Disneyland due ore prima dell’apertura al pubblico e usufruire di alcune tra le attrazioni più gettonate con pochissima attesa. In certi periodi dell’anno le EMH si svolgono ai Walt Disney Studios o, nei giorni di maggiore affluenza, in entrambi i Parchi. Ed è proprio agli Studios che queste due ore in più si sfruttano al meglio, perché qui le attrazioni aperte sono non solo le più affollate, ma anche le più adrenaliniche, molte delle quali non hanno il Fastpass.

Più recenti, dell’estate 2010, sono le file per Single Riders, per ora presenti solo in alcune attrazioni dei Walt Disney Studios. Questo tipo di fila offre due vantaggi: da un lato permette di sfruttare al meglio gli spazi, riempiendo i vagoni al massimo laddove ci sono dei posti vuoti, e dall’altro riduce rispetto alla coda normale le attese. La fila Single Riders è l’ideale per chi è solo, o è l’unico del gruppo a volere salire su un’attrazione, ma è ideale anche per più persone che decidono di fare la corsa da soli e risparmiare tempo e stress.

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Il passo più importante verso l’evoluzione in smart city è stato fatto con l’aggiornamento, a ottobre 2015, dell’app ufficiale. Con la versione 2.0 e la sua mappa interattiva, si possono consultare gli orari di apertura dei due parchi e quelli degli spettacoli, verificare le attese per l’ingresso alle attrazioni ed esplorare i meandri del Resort, dai ristoranti fino alle toilette. Anche per permettere ai visitatori di sfruttare al meglio questa nuova applicazione, Disneyland Paris ha deciso di allargare, da ottobre 2016, il wi-fi gratuito, per ora presente solo negli hotel, anche nei due parchi.

Il parco parigino sarà il secondo ad avere la connessione wi-fi in tutto il Resort, dopo Walt Disney World a Orlando. Infatti né il Disneyland californiano di Anaheim, né i due parchi asiatici Tokyo Disneyland e Hong Kong Disneyland Resort sono dotati di wi-fi. Una strategia di marketing? Forse: Internet sarebbe una distrazione, dalla magia fiabesca ma soprattutto dagli acquisti.

Un po’ come la scelta di posizionare i negozi all’uscita delle attrazioni, quando l’adrenalina dei guest è al massimo. Insomma, la Disney è pur sempre una multinazionale che punta a massimizzare il profitto e, per farlo, ha saputo giocare con trucchi e agevolazioni. Gli stessi che, tuttavia, permettono anche ai grandi di divertirsi senza impazzire in mezzo al caos.

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Mark Zuckerberg: filantropo o calcolatore?

Arte Rivista – Mondo

La notizia, di qualche settimana fa, è di quelle che fanno scalpore: Mark Zuckerberg e consorte, in concomitanza con la nascita della loro primogenita Maxima, hanno deciso di donare il 99% delle azioni Facebook alla Chan Zuckerberg Initiative, charity program da loro creato nel 2009.

E così i social sono impazziti: da ogni parte sono arrivati elogi per Zuckerberg e sua moglie, tutti si sono congratulati ed hanno esultato per la doppia buona novella, dalle celebrità come Arnold Schwartznegger, Melinda Gates, Martha Stewart e Shakira, fino ai più comuni fan di Zuck.

Ma sono bastati pochi giorni per vedere sorgere le prime perplessità riguardo all’operazione del fondatore di Facebook. Il primo forte dubbio riguarda l’utilizzo di questi fondi.

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Se infatti la Chan Zuckerberg Initiative si occupa di “sostenere le organizzazioni di tutto il mondo, a patto che esse siano dedite allo sviluppo di potenziale umano e alla promozione dell’uguaglianza negli ambiti della salute, dell’educazione, della ricerca scientifica e dell’energia”, la fondazione è anche una Limited Liability Company (Llc), una sorta di società privata, che può anche finanziare attività profit, e che, come specificato nel proprio statuto, si riserva la libertà di utilizzare i fondi ricevuti per l’acquisizione di spazi per interventi di carattere politico o per investimenti privati.

Questa Llc si trova inoltre nello stato del Delaware, una sorta di piccolo paradiso fiscale all’interno degli Stati Uniti, dove le società non pagano tasse, ma solo tributi per l’acquisizione ed il rinnovo della licenza.

Proprio la tassazione riguarda il secondo forte dubbio suscitato dalla donazione di Zuckerberg. Qualche tempo fa, il New York Times titolava “Americani, dovete donare!”, per via delle agevolazioni fiscali che si ricavano negli USA grazie alla donazione di azioni. Se Zuckerberg infatti avesse venduto più avanti queste azioni, avrebbe perso gran parte del patrimonio ricavabile dalla vendita delle stesse a causa della tassazione. Il modo migliore per massimizzare i privilegi fiscali è proprio quello di donare azioni, invece che denaro contante. In breve, grazie a quest’operazione, Zuckerberg potrebbe aver evitato di pagare tasse sulla quasi totalità del suo patrimonio derivante da Facebook.

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Di certo i precedenti del 31enne genio di White Plans non aiutano, come quando nel 2010 i fondi ricavati da una sua donazione e destinati alle scuole pubbliche di Newark furono utilizzati per interessi privati legati allo stesso Zuckerberg, il quale doveva rimediare alla cattiva pubblicità che seguì all’uscita del film “The Social Network”. Va tuttavia ricordato che nel 2013, secondo la classifica stilata dal Chronicle of Philanthropy, Mark e sua moglie Priscilla si sono aggiudicati il titolo di “più generosi d’America”, risollevando almeno in parte la loro immagine di filantropi dopo la brutta storia del 2010.

A questo punto non resta che aspettare per vedere cosa succederà, nel bene e nel male. La nostra speranza è che i fatti ci smentiscano, azzerando le nostre preoccupazioni e scacciando dalla nostra mente la sensazione che questa non sia stata una donazione a fin di bene, ma l’ennesima operazione ben riuscita di marketing.

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BRANDALISM, l’arte smaschera i potenti

Arte Rivista – Parigi

Immaginate di trovarvi a Parigi. Uscite di casa e vi sedete sotto la pensilina della fermata dell’autobus aspettando di andare al lavoro, a scuola, a fare la spesa. Come ogni giorno osservate il cartellone pubblicitario che occhieggia alla vostra sinistra. Una bella hostess dell’Air France vi guarda ammiccando. Nulla di strano, ma qualcosa non torna:

«Contrastare il cambiamento climatico? Certo che no, siamo una compagnia aerea»

è lo spiazzante messaggio che campeggia sotto la foto. Spiazzante non solo per l’accostamento di una grossa multinazionale a uno slogan antiambientalista, ma anche perché la Parigi nella quale vi trovate è quella del Cop21, che si è concluso lo scorso 11 dicembre.

 

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Sono più di 600 i cartelloni che dal 29 novembre scorso sono apparsi in tutta la città denunciando l’ingerenza delle multinazionali sui negoziati sul clima aperti il 30 novembre e conclusisi pochi giorni fa. L’opera di affissione è stata davvero notevole se si pensa che è avvenuta nella totale illegalità in una città in pieno stato d’urgenza.  In pochi giorni, ad opera di anonimi personaggi in pettorina arancione, sono stati posizionati negli spazi pubblicitari appartenenti alla JCDecaux, una delle più grandi imprese pubblicitarie e sponsor ufficiale dei negoziati del Cop21.

 

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Ma da dove viene tutto questo?

I cartelloni sono opera di artisti tutt’altro che anonimi membri del progetto anti-pubblicitario Brandalism, nato nel Regno Unito nel 2012. Gli autori, street artist provenienti da tutto il mondo, sono 82, di cui anche 4 italiani: BR1, Fra Biancoshock, Millo e Opiemme. Uniscono le loro abilità per un’azione di subvertising e partono dalla «democratica convinzione che la strada è un luogo di comunicazione, che appartiene ai cittadini e alle comunità che ci vivono. Gli interventi sono “una ribellione contro l’assalto visuale dei giganti mediatici e i magnati pubblicitari che esercitano una stretta mortale sui messaggi trasmessi nei nostri spazi pubblici”, per citare il loro sito, dove per altro appare l’irriverente dicitura di “unofficial partner” sotto il logo del Cop21.

 

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Oltre alla già citata Air France sono state prese di mira la Mobil, la Volkswagen e la Total e anche alcuni politici come Barack ObamaFrançois Hollande, David Cameron e Angela Merkel. Rappresentativa l’immagina di Shinzo Abe pensieroso e dalla cui testa spuntano nere ciminiere. Presenti anche rappresentazioni inquietanti della situazione climatica attuale: l’Alice di Lewis Carroll con una maschera antigas o l’invito a godere del cambiamento climatico in un pianeta preda di inondazioni e catastrofi naturali.

 

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«Noi riprendiamo possesso degli spazi pubblicitari – afferma uno degli artisti sul sito dell’organizzazione– perché vogliamo denunciare il ruolo che la pubblicità gioca nel promuovere un consumismo insostenibile. L’industria pubblicitaria alimenta il nostro desiderio per i prodotti che pesano sulla disponibilità di energie fossili e che hanno un impatto diretto sul cambiamento climatico. Sono le stesse che sponsorizzano i negoziati climatici e gli eventi ad essi  paralleli».

 

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La fine dei cartelloni? «Probabilmente– ci dice 2501, street artist italiano che fa parte di Brandalism-  sono stati tolti dalla stessa compagnia pubblicitaria al momento del cambio prestabilito anche perché essendo davvero tantissimi e distribuiti in tutto lo spazio cittadino sarebbero stati difficili da controllare ed eliminare in breve tempo».